Al Colosseo la cerimonia conclusiva dell’evento “Osare la pace”. In rappresentanza della Soka Gakkai Internazionale, Hirotsugu Terasaki, vicepresidente della Soka Gakkai, con Robert Harrap e Alberto Aprea, ha preso parte alla cerimonia condotta da Papa Leone XIV, insieme ai principali leader delle religioni mondiali.
Donne e uomini di differenti religioni hanno pregato insieme nel pomeriggio del 28 ottobre, secondo le diverse rispettive tradizioni religiose, portando nel cuore il dolore di tanti popoli per le guerre in corso. Voci diverse da ogni religione e cultura che si sono unite per dichiarare che la pace è possibile, se si osano il dialogo e la speranza.



Dopo la tradizionale preghiera delle Chiese cristiane riunite all’interno del Colosseo, Papa Leone XIV ha salutato uno ad uno i rappresentanti delle varie religioni mondiali invitati ad assistere alla cerimonia sul palco appositamente allestito sotto l’Arco di Costantino. Tra di essi Hirotsugu Terasaki, vicepresidente della Soka Gakkai, ha preso parte alla cerimonia sul palco, accanto ai principali leader delle religioni mondiali.
«Il mondo ha sete di pace – ha affermato Papa Leone: ha bisogno di una vera e solida epoca di riconciliazione, che ponga fine alla prevaricazione, all’esibizione della forza e all’indifferenza per il diritto. […] Con la forza della preghiera dobbiamo far sì che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e inizi una storia nuova. Non possiamo accettare che questa stagione perduri oltre, che plasmi la mentalità dei popoli, che ci si abitui alla guerra come compagna abituale della storia umana. Basta! È il grido dei poveri e il grido della terra». […]
«Mettere fine alla guerra è dovere improrogabile di tutti i responsabili politici di fronte a Dio. La pace è la priorità di ogni politica. Dio chiederà conto a chi non ha cercato la pace o ha fomentato le tensioni e i conflitti, di tutti i giorni, i mesi, gli anni di guerra. Questo è l’appello che noi leader religiosi rivolgiamo con tutto il cuore ai governanti. Facciamo eco al desiderio di pace dei popoli. Ci facciamo voce di chi non è ascoltato e non ha voce. Bisogna osare la pace!».
Nel 1986 Giovanni Paolo II dichiarò che “la pace è un cantiere aperto a tutti”. E invitò i leader religiosi del mondo ad Assisi a pregare per la pace. Fu un momento storico, una svolta nei rapporti tra le religioni. La comunità di Sant’Egidio ha raccolto questa eredità e ha continuato a organizzare anno dopo anno questi incontri di preghiera e dialogo, creando un clima di amicizia tra i leader religiosi, nella convinzione che la pace sia sempre possibile.
«Di fronte a tante guerre aperte – ha affermato Marco Impagliazzo – sentiamo ancora di più la necessità di andare controcorrente: abbiamo osato parlare di pace in un mondo, dominato dalle polarizzazioni, che usa il linguaggio della guerra. … Non ci siamo rassegnati ma abbiamo tenuto aperte le vie del dialogo. Chiudere le vie del dialogo è una follia, perché – come diceva papa Francesco – “il mondo soffoca senza dialogo”. Abbiamo sentito in questi giorni il bisogno di ascoltarci parlarci e conoscere, perché l’uomo diventa nemico di chi non conosce. Per amare bisogna conoscere»
Ci sono stati momenti di preghiera e di raccoglimento in ricordo delle vittime di tutte le guerre e diverse testimonianze, l’accensione simbolica del “candelabro della pace” per mano dei leader delle diverse religioni, e a conclusione le note suggestive della tromba di Paolo Fresu come un lungo suggestivo richiamo.
E anche se il presente appare buio, “le scintille di speranza” sprigionate in questi giorni a Roma, tra dialoghi, dibattiti, ascolto e desiderio di conoscenza reciproca, hanno portato alla stesura di un Appello di pace che è stato letto al pubblico e poi simbolicamente affidato alle mani di bambini provenienti da ogni parte del mondo, che a loro volta lo hanno consegnato ai rappresentanti dei governi e alle autorità civili presenti alla cerimonia affinché agiscano per metterne in pratica i contenuti.
La giustizia non uccide, abolire la pena di morte




Nel corso della mattinata, il 28 ottobre, la Soka Gakkai ha partecipato al Forum 22, dal titolo “La giustizia non uccide, abolire la pena di morte” (Justice Does Not Kill: Abolishing the Death Penalty) che si è tenuto nella cornice del Forum Austriaco di Cultura. Per la SGI ha tenuto un discorso la professoressa ordinaria di diritto privato nell’Università di Pisa Enza Pellecchia, coordinatrice della Rete delle Università italiane per la pace, un network al quale aderiscono 75 università italiane per promuovere nella didattica, ricerca e trasferimento della conoscenza, orientati alla analisi dei conflitti e alla costruzione della pace con mezzi pacifici.
Nel suo intervento ha evidenziato l’origine e la direzione dell’impegno della Soka Gakkai per l’abolizione della pena di morte, condividendo alcune riflessioni del maestro Ikeda sulla dignità della vita umana e sulla inaccettabilità della pena di morte, e individuando alcuni punti di vicinanza con il magistero di Papa Leone XIV.
Citando diversi passi dal dialogo tra Daisaku Ikeda e lo storico inglese Arnold Toynbee, ha sottolineato il senso profondo dell’impegno dell’organizzazione buddista: «La vita non è uno strumento, non è qualcosa che possiamo usare, giudicare o pesare in base alla colpa o al merito. Ogni vita è unica, irripetibile, e proprio per questo nessuno ha il diritto di sopprimerla – neppure lo Stato, neppure nel nome della giustizia. Alcuni potrebbero sostenere che chi commette crimini atroci perda il diritto stesso di vivere. Eppure, come sottolinea Ikeda nel dialogo con Toynbee, la dignità della vita non è qualcosa che si guadagna o si perde in base alle proprie azioni.
È una qualità intrinseca, un valore intangibile che dimora in ogni essere umano, anche in chi ha compiuto crimini orrendi. Negare questa dignità in qualcuno significa, in ultima analisi, diminuirla in tutti». A questo proposito ha citato la recente affermazione di Papa Leone XIV: «non ci si può dire davvero pro-life se si accetta la pena di morte o qualunque altra forma di violenza che impedisca alla vita di manifestarsi». E ha aggiunto: «C’è in queste parole una coerenza profonda: o si difende la vita in tutte le sue forme, oppure si finisce per svuotare quel principio del suo valore universale». Citando ancora il maestro Ikeda, Enza Pellecchia ha sottolineato la radice comune della pena di morte e della guerra, che nascono dalla medesima abitudine di svalutare la vita.
Ikeda scrive: «La guerra è una delle principali cause della svalutazione della vita. Nella quasi totalità dei casi, le guerre sono condotte da Stati che agiscono per i propri interessi. La vita umana viene considerata nient’altro che un mezzo per ottenere la vittoria… Finché questo crimine mostruoso sarà tollerato, gli altri crimini umani continueranno a crescere e a diffondersi».
Enza Pellecchia ha concluso il suo intervento ricordando che in Italia la Soka Gakkai ha avuto il privilegio di collaborare con la Comunità di Sant’Egidio nella raccolta di firme per la moratoria ONU sulla pena di morte. Grazie a questo sforzo in tutta Italia, nel 1999 furono raccolte oltre 450.000 firme — numero che in seguito salì a quasi un milione – quale potente espressione dell’impegno dell’Italia per la vita e la dignità umana. «Fu un momento storico di unità e di dialogo – ha concluso.
Buddisti, cattolici, laici e persone di ogni provenienza firmarono insieme per affermare un principio semplice e universale: la giustizia non può uccidere. Quell’esperienza dimostrò che la cooperazione tra diversi cammini spirituali può generare una forza etica straordinaria. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di quella stessa energia di dialogo e di fiducia reciproca».
Di seguito l'intervento integrale di Enza Pellecchia
È un grande onore essere qui oggi a nome della Soka Gakkai Internazionale, un’organizzazione buddista globale con più di 12 milioni di membri nel mondo che promuove la pace, la cultura e l’educazione, ponendo il rispetto per la dignità della vita al centro di ogni sua attività. Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio per aver promosso ancora una volta questo prezioso dialogo su un tema che tocca il cuore stesso della nostra umanità: l’abolizione della pena di morte. Io sono Enza Pellecchia, sono membro dell’Istituto buddista italiano Soka Gakkai, sono professoressa ordinaria di diritto privato nell’Università di Pisa, dove sono stata anche direttrice prima del Centro per i Diritti Umani e poi del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace. Attualmente coordino la Rete delle Università italiane per la pace, un network al quale aderiscono 75 università italiane per promuovere nella didattica ricerca e trasferimento della conoscenza orientati alla analisi dei conflitti e alla costruzione della pace con mezzi pacifici.
Nel mio breve intervento metterò in evidenza l’origine e la direzione dell’impegno della Soka Gakkai Internazionale per l’abolizione della pena di morte: a tal fine condividerò con voi alcune riflessioni del Maestro Daisaku Ikeda sulla dignità della vita umana e sulla inaccettabilità della pena di morte, e individuerò alcuni punti di vicinanza con il magistero di Papa Leone XIV.
1. La vita non è un mezzo, è “un fine in sé”
Vorrei cominciare con le parole di Daisaku Ikeda, fondatore della SGI, che nel suo dialogo con lo storico Arnold Toynbee afferma:
«La vita, come entità assoluta e degna del più profondo rispetto, non deve mai essere trattata come un mezzo per ottenere qualsiasi altra cosa al di fuori della vita stessa. La dignità della vita è un fine in sé; perciò, quando è necessario imporre un limite sociale, è certamente meglio escogitare un metodo che non intacchi la vita».
Questa frase racchiude il senso profondo del nostro impegno come organizzazione buddista: la vita non è uno strumento, non è qualcosa che possiamo usare, giudicare o pesare in base alla colpa o al merito. Ogni vita è unica, irripetibile, e proprio per questo nessuno ha il diritto di sopprimerla - neppure lo Stato, neppure in nome della giustizia. Alcuni potrebbero sostenere che chi commette crimini atroci perda il diritto stesso di vivere. Eppure, come sottolinea Ikeda nel dialogo con Toynbee, la dignità della vita non è qualcosa che si guadagna o si perde in base alle proprie azioni. È una qualità intrinseca, un valore intangibile che dimora in ogni essere umano, anche in chi ha compiuto crimini orrendi. Negare questa dignità in qualcuno significa, in ultima analisi, diminuirla in tutti. Come ha recentemente ricordato Papa Leone XIV: «Non ci si può dire davvero pro-life se si accetta la pena di morte o qualunque altra forma di violenza che impedisca alla vita di manifestarsi». C’è in queste parole una coerenza profonda: o si difende la vita in tutte le sue forme, oppure si finisce per svuotare quel principio del suo valore universale. Quando una società accetta la pena di morte, manda un messaggio devastante: che alcune vite valgono meno di altre. È una forma di violenza istituzionalizzata che distrugge la speranza e alimenta una cultura della vendetta. Ikeda la definisce “la tendenza a sottovalutare la vita”:
«L’uso della pena di morte come deterrente manifesta una deplorevole tendenza che affligge da tempo la società umana… quella tendenza è l’abitudine di sottovalutare la vita».
Ecco perché, dice Ikeda, dobbiamo cercare forme di giustizia che non tocchino la vita, che la proteggano anche quando si tratta di chi ha commesso un crimine.
2. La radice comune di pena di morte e guerra
Daisaku Ikeda ci invita poi a guardare più in profondità. Perché, si chiede, l’umanità continua a giustificare la morte inflitta da un essere umano a un altro essere umano? La risposta è chiara: perché la guerra - come la pena di morte - nasce dalla medesima abitudine di svalutare la vita. Dice Ikeda:
«La guerra è una delle principali cause della svalutazione della vita. Nella quasi totalità dei casi, le guerre sono condotte da Stati che agiscono per i propri interessi. La vita umana viene considerata nient’altro che un mezzo per ottenere la vittoria… Finché questo crimine mostruoso sarà tollerato, gli altri crimini umani continueranno a crescere e a diffondersi».
Colgo in queste parole un'intensa risonanza con le parole di Papa Leone XIV, che ha recentemente denunciato «l’ipocrisia di chi condanna la violenza di una guerra, ma giustifica la violenza legale di una condanna a morte».
Abolire la pena di morte e abolire la guerra sono due aspetti della stessa rivoluzione etica: riconoscere che la vita non può essere mai un mezzo - né per la sicurezza, né per la vendetta, né per il potere.
3. Educare, non eliminare
La Soka Gakkai crede che la funzione autentica della giustizia non sia punire o eliminare, ma educare e trasformare. Ikeda parla spesso della necessità di un sistema penale che non si limiti a contenere, ma che aiuti il colpevole a risvegliare la propria coscienza. Le carceri, dice, dovrebbero diventare luoghi di educazione e di rinnovamento morale, e solo educatori animati da una straordinaria dedizione e compassione potranno renderlo possibile. Non è facile, ma è l’unica via che afferma davvero la fiducia nel potenziale umano. Una società che ricorre alla pena di morte dichiara implicitamente di non credere nella possibilità del cambiamento. Anche Papa Leone XIV ha espresso la stessa convinzione, ricordando che «nessuno è definito per sempre dal male che ha commesso: la giustizia autentica non cancella, ma accompagna; non distrugge, ma aiuta a ricostruire».
Questo pensiero si intreccia profondamente con la visione umanistica di Daisaku Ikeda: entrambi ci invitano a riconoscere nella trasformazione interiore dell’essere umano la via per una giustizia che rigenera, e non che esclude.
Una società che educa, accompagna e offre una seconda possibilità, costruisce la vera sicurezza: quella che nasce dal riconoscimento della nostra comune umanità.
4. Il risveglio della misericordia/empatia
Ma tutto questo, avverte Ikeda, non può accadere senza una profonda trasformazione spirituale. Afferma infatti:
«Sono certo che un sentimento di misericordia religiosa dovrà diffondersi in tutto il mondo prima che questo possa accadere. Solo allora l’umanità diverrà consapevole del vero significato dell'importanza della vita; solo allora si risveglierà alla dignità della vita».
È una visione che parla a credenti e non credenti, perché “misericordia” qui significa empatia e compassione: significa riconoscere la sofferenza dell’altro, anche del colpevole, come parte della nostra stessa condizione umana. Solo quando questo spirito attraverserà la cultura, la politica e la giustizia, potremo davvero dire di vivere in una società che difende la vita.
5. Una storia di collaborazione e speranza
In Italia la Soka Gakkai ha avuto il privilegio di collaborare con la Comunità di Sant’Egidio nella raccolta di firme per la moratoria ONU sulla pena di morte. Grazie a questo sforzo, nel 1999 furono raccolte in tutta Italia oltre 450.000 firme — numero che in seguito salì a quasi un milione — e furono consegnate a suor Helen Préjean e a Mario Marazziti quale potente espressione dell’impegno dell’Italia per la vita e la dignità umana. Fu un momento storico di unità e di dialogo. Buddisti, cattolici, laici e persone di ogni provenienza firmarono insieme per affermare un principio semplice e universale: la giustizia non può uccidere. Quell’esperienza dimostrò che la cooperazione tra diversi cammini spirituali può generare una forza etica straordinaria. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di quella stessa energia di dialogo e di fiducia reciproca.
6. Coltivare la cultura della vita
Ikeda ha spesso scritto che il progresso dell’umanità non si misura con la potenza delle armi o con la severità delle pene, ma con la capacità di proteggere e onorare la vita in ogni circostanza. Abolire la pena di morte significa scegliere la fiducia invece della paura, la compassione invece della vendetta. È una sfida che riguarda tutti noi - governi, religioni, società civile - perché non si tratta solo di cambiare una legge, ma di cambiare la coscienza dell’essere umano.
Con il nostro impegno condiviso possiamo contribuire a risvegliare le coscienze: per una giustizia che non uccide, ma rigenera; per una cultura della vita che protegge, educa e riconcilia.
A questo link l'articolo pubblicato sul sito sgi-italia.org in cui si racconta la giornata di apertura dell'evento "Osare la pace": https://www.sgi-italia.org/press-e-media/osare-la-pace-a-roma-lincontro-internazionale-per-la-pace-organizzato-dalla-comunita-di-santegidio/
