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30 ottobre 2024

Raccontare con umanità

Intervista a Raffaella Cosentino, giornalista inviata di guerra

Raffaella è una giornalista inviata di guerra, specializzata in diritti umani, migrazione e mafia. In questa intervista ci racconta del suo lavoro e di come il Buddismo la sostenga ogni giorno a percepire la fiducia che le cose miglioreranno e a ridare voce alle persone le cui storie vengono costantemente lasciate nell’ombra

immagine di copertina

Devo dire che quando ho iniziato a fare la giornalista ho subito iniziato a pensare alla carriera di inviata di guerra.
Credo di aver sviluppato in quel periodo la consapevolezza dell’importanza di raccontare le storie, di andare nei luoghi. Era il 2008, anno in cui ho iniziato come freelance.
Successivamente sono stata a Beirut che ora è pesantemente bombardata e sono stata nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila.
Ciò che mi interessava raccontare era la sofferenza, la violazione dei diritti umani e ho iniziato a occuparmene, specializzandomi sulla gestione delle frontiere e sulle mafie che lucravano sull'accoglienza dei migranti in Italia, ma anche sulla discriminazione delle minoranze. Dopo cinque anni passati a lavorare per la Rai a Palermo, sono stata trasferita a Roma a RAI News. Da due anni mi occupo solo di guerre.

In questi anni ho vissuto tante esperienze, ve ne racconto alcune. Ad esempio, sono riuscita a far chiudere diversi centri lager nei quali venivano detenuti molti migranti.
Nel 2016 sono stata per tre settimane al largo della Libia sulla nave di un’Ong che soccorreva i migranti. Pregavo per la loro protezione. Incredibilmente siamo sempre riusciti ad arrivare sul luogo poco prima che i gommoni pieni di migranti affondassero del tutto.
Un'altra storia, al centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria, una coppia di tunisini era stata separata forzatamente. La donna, lontana dal marito e a causa delle condizioni disumane del centro, ha tentato il suicidio. Attraverso un mio articolo su un quotidiano nazionale che ha fatto scalpore (dal titolo “Romeo e Giulietta a Ponte Galeria” pubblicato a Natale), la coppia è riuscita a uscire dal Centro e a fare ricorso potendo in questo modo ottenere un permesso di soggiorno.
Era il titolo giusto al momento giusto. Ecco, il giornalismo dovrebbe avere la funzione di riequilibrare i poteri nella società, ridare voce a chi non ce l’ha.
Alla base c’è sempre stato un forte Daimoku, con il quale ho potuto sostenere il mio lavoro anche nei momenti più difficili. Questo anche grazie all’allenamento durante l’attività giovani nella Soka Gakkai. Possiamo dire che un giornalista fa un buon lavoro quando riesce a valorizzare le storie delle persone di cui si fa carico e che porta all'attenzione. Vi parlo ovviamente di un giornalismo sociale.

Il valore della mia esperienza per me è sempre legata al Daimoku, perché è vero che il mio lavoro è importante, che ci credo molto, che lo faccio con passione, che vado in questi posti perché credo che sia nostro dovere raccontare quello che succede, sperando che poi le cose cambino, dare un contributo.
Tuttavia, soprattutto per come è organizzata la comunicazione attuale, hai sempre meno la sensazione che quello che fai possa contribuire a cambiare la realtà.
E allora lì c'è il Daimoku.
Recitare Daimoku mi fa sentire che sto mettendo alla base di tutto la fiducia che le cose cambieranno. Mi ispira molto leggere di come il presidente Ikeda ovunque andasse recitava Daimoku per la pace. Come quando andò davanti al muro di Berlino. Quindi quello che posso fare veramente è davanti a tutta questa sofferenza recitare Daimoku perché le guerre finiscano, perché le cose cambino, perché la terra si impregni di Nam-myoho-renge-kyo, come diceva Sensei.

Le storie che ho raccontato e ascoltato sono storie disperate, ma anche cariche di speranza, di persone disposte a tutto pur di cambiare la propria vita. Di ragazzini che in Africa non possono studiare e rischiano di morire in mare perché vogliono studiare. Purtroppo spesso questa possibilità non gli viene data perché li mettiamo in centri dove non c'è un processo di inclusione.
Il contatto con queste storie arricchisce la nostra umanità. Non siamo solo noi a portare energia, umanità. Le storie di queste persone insegnano cosa significhi avere speranza.

Considero un grande beneficio la possibilità di poter stare sia in Israele che in Palestina.
Io non sono stata a Gaza prima della guerra e successivamente non era permesso ai giornalisti internazionali di entrare. Sono stata però in Cisgiordania dove comunque c'è la guerra, solo che è meno visibile. Non viene bombardata sistematicamente, ma anche in quella zona ci sono i bombardamenti israeliani con i droni.
Essendo una questione molto complessa come giornalista sento che è importante cercare di capire tutti i punti di vista.
Da ciò che ho visto ci sono due popoli con profondi traumi, ed entrambi sentono minacciata la loro sopravvivenza, ma è chiaro che c'è una sproporzione di forze. Gli israeliani hanno l'esercito, hanno le armi, sono sostenuti dagli Stati Uniti e hanno un vero e proprio Stato. I palestinesi non hanno uno Stato, vivono sotto occupazione, non hanno un esercito e questo è il motivo per cui nascono le milizie e i gruppi armati. Inoltre, oltre a tutti quelli che sono morti, a Gaza c'è una generazione di bambini che cresceranno gravemente amputati, che vivranno la loro vita così.  
Però ci sono delle voci in entrambi i popoli che si rivolgono alla conciliazione. Voci minoritarie che la guerra ha azzittito. Perché la guerra ha dato voce agli estremisti di tutti e due i popoli. Ma ci sono delle voci che purtroppo vengono silenziate e a cui bisogna dare tutta la forza possibile. Sono storie di persone che vogliono la pace, che vedono nell'altro un vicino con cui possono condividere il territorio. Lo so per certo perché li ho incontrati, ci ho parlato, anche durante questa guerra.
Un esempio è la storia di Ilana Kaminka, una donna ebrea israeliana con la quale sono stata in Cisgiordania. Lei è una pacifista convinta, il cui figlio era militare ed è stato trucidato da Hamas. Era già da tempo amica di un palestinese di un villaggio vicino e aveva già aiutato in passato quest’uomo il cui figlio era stato ucciso dall’esercito israeliano senza alcun motivo. Questa storia per me è stata incredibile, commovente.
Quando siamo arrivati c'era la lapide del ragazzo palestinese fatta a pezzi dall'esercito israeliano, tutta in frantumi… e loro hanno cominciato insieme, una mamma israeliana e un padre palestinese, a ricomporre questi pezzi come un mosaico. È stata una scena che non potrò mai dimenticare.
Mi sono sentita privilegiata a potervi assistere con i miei occhi. Detto ciò, è ovvio che i palestinesi devono avere un loro Stato e che senza uno Stato palestinese Israele non potrà avere pace, ma tanti israeliani non ne sono consapevoli.
Esistono però queste frange minoritarie. Se riescono loro a superare questo conflitto, lo possiamo di certo fare noi a cui nessuno ha ucciso un familiare.

L’umanità. Il rispetto per il dolore altrui.
E anche l'obiettività, nel senso che io ho le mie convinzioni, ma in una storia cerco di raccontare tutti gli elementi che servono al pubblico per farsi una sua idea, non un'idea che io devo propugnare, soprattutto in contesti complessi. E poi il grande strumento che abbiamo in mano con i media, quindi la possibilità di incidere sulla realtà e di portare alla luce tutti gli aspetti di questa realtà. Le microstorie spesso raccontano una grande storia.

Io sono cresciuta nella Soka Gakkai che sento mi ha formata a tendere verso la pace, a pregare per la pace, averla come obiettivo sia nella nostra vita che attorno a noi, nel mondo.
Quando ero piccola, negli anni ‘80, si parlava sempre dell'orologio atomico, delle bombe atomiche, perché c'era la Guerra Fredda. Finisce la Guerra Fredda e non se ne parla più. Noi della Soka Gakkai abbiamo riportato all'attenzione globale questa minaccia. Il nostro maestro Daisaku Ikeda ha avuto la capacità di capire prima cosa sarebbe servito dopo ed è una capacità che il Daimoku ci permette di sviluppare; quindi, non dobbiamo mai pensare che ciò che diciamo o facciamo per la pace cada nel vuoto. Tutto il Daimoku che stiamo facendo sta salvando il mondo, a maggior ragione in questo momento, con quello che sta succedendo.

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